Benvenuti nel sito del Pisa Sporting Club. Questo sito vuole celebrare la storia, del gloriosa Pisa Sporting Club 1909(ora Pisa 1909)
Qui di seguito potrete iniziare a rivivere tutte le emozioni riguardanti la nostra gloriosa squadra cittadina.
Riviviamo tutti quanti insieme le stupende emozioni che il nostro Pisa ci ha regalato lungo questi cento anni
Pisa

Pisa Citta'


Sconosciuta è l'origine della città di Pisa. Alcuni affermano che essa facesse parte dello Stato etrusco (di un popolo vissuto nella Toscana molto tempo prima di quello romano); altri affermano che essa nacque da un piccolo villaggio di pescatori liguri quasi tremila anni fa. Vi sono coloro poi che la vogliono fondata da re grèci e che la chiamassero Pisa appunto perché nel territorio dove essi abitavano, esisteva un'altra città con questo nome; altri poi la fanno essere città originaria, il che significa fondata da popoli che per primi abitarono questa terra. In ogni modo, poche sono le città del mondo che possono vantare, come Pisa, un'origine che si perde nel buio dell'antichità ed una risonanza così vasta, al punto di essere ricordata, attraverso i secoli da valenti scrittori d’ogni epoca. Situata presso la foce dell'Arno, in amena posizione, in mezzo ad una fertile pianura, circondata da folte selve, dalle quali Pisa ricavava il legname per le sue flotte, non fa meraviglia se essa, fin dalle epoche più remote, accogliesse un popolo di naviganti e divenisse in seguito illustre e famosa.


D'altra parte l'Arno stesso, assai più ampio d’oggi, favoriva lo svilupparsi del commercio per le vie d’acqua. Nel periodo etrusco essa trasportava le sue navi, cariche di legnami, di pietre, di granaglie, di biade, di prodotti delle sue circostanti colline, dove sorgevano i castelli dei lucumoni, autorevoli personaggi che erano ad un tempo guerrieri, magistrati e mercanti. Una parte di questo traffico si riversava nel porto pisano esistente allora presso l'attuale Calambrone. Nel successivo potenziamento dello Stato etrusco, Pisa ne divenne la difesa estrema e fu considerata perciò una fortezza di confine contro la minacciante pressione dei popoli liguri. Col sorgere dell'irrompente potenza di Roma, che riuscì a sottomettere gli etruschi, il territorio pisano, che in quel tempo viveva un po' una sua vita isolata perché risultava libero dalle due forze contendenti, fu quasi un piccolo Stato indipendente. Col tempo le sorti di Roma e di Pisa si andarono sempre più legando. Non poteva essere altrimenti giacché i successivi avvenimenti storici portarono Pisa al centro dell’espansione romana; la città nostra, dopo la conquista dell' Etruria da parte di Roma, era per questa un passaggio obbligato ed una testa di ponte importantissima per l'avanzarsi delle sue forze dall'Italia centrale a quella settentrionale. Durante le guerre che Roma sostenne contro Cartagine, Pisa è il porto principale delle armate romane impegnate nella lotta contro i liguri che, alleati dei cartaginesi e da questi stessi guidati ed istigati, cercavano di aiutarli, re-cando danni ai popoli amici di Roma. A reprimere tali scorrerie sostano e svernano in Pisa consoli, proconsoli e truppe. Avvenuta la sconfitta di Moderni del pretore Lucio Manlio (530 A. C.), i liguri e gli apuani invadono l' Etruria spogliando porti e terre marittime nella loro marcia verso Roma. Né Pisa è risparmiata. Nonostante si difendesse strenuamente dalle sue antiche mura, è battuta.


Considerata però la sua importanza, dopo la sconfitta inflitta agli invasori presso Talamone, gli abitanti di Roma inviano un forte presidio in Pisa in modo che la difenda dalle incursioni. Ma la lotta a morte tra le due potenti rivali si fa sempre più ferrata; tanto l'una che l'altra città mette in campo potenti armate. Volgono anni minacciosi per Roma. Quasi tutti i popoli da lei sottomessi con lunghe e sanguinose guerre, approfittando della discesa in Italia di Annibale, si ribellano e, uniti al vincitore, infliggono gravissime perdite ai romani. Solo i tirreni rimangono fedeli e quando Roma mostrò che l'unica salvezza era di portare la guerra in Africa, questi popoli si armano e si prodigano con tutte le loro forze per concorrere a giovare nell'impresa: Populonia somministra il ferro, Roselle, Chiusi e Perugia gli abeti ed altri i legnami per costruire navigli, Tarquinia tesse le vele, Volterra forgia le armi, Arezzo offre anni e vettovaglie .... e Pisa? Pisa vigila armata contro i liguri alleati d’Annibale e capitanati dal punico Magone, per trattenerli da ogni eventuale incursione verso la città sacra. Lo scopo è raggiunto, i romani sbarcano a Cartagine e riescono vittoriosi. Il governo della città ordina ad Annibale, che si trovava in Abruzzo, ed a Magone, ancora in Liguria, di accorrere in patria. Gli alleati sono quindi abbandonati al risentimento dei romani i quali, divenuti padroni della navigazione in gran parte del Mediterraneo, si scagliano per terra contro i liguri e i galli cisalpini. Questi però istigano gli apuani, popolo di forti e rudi montanari, a fare delle scorrerie nella Toscana. Così da Apua, oggi Pontremoli, essi muovono, e nelle loro uscite devastano il bel territorio etrusco, commettendo ogni sorta di soprusi e di saccheggi. Quando finalmente quei predatori poterono essere sconfitti definitivamente dall'esercito romano, che costrinse gli apuani ad abbandonare il loro territorio, andandosi a stabilire nelle terre dei sanniti, Pisa, che battuta sempre soprattuto dai liguri, doveva trovarsi quasi disabitata e spogliata nelle produttive campagne, sapendosi libera da sì temuti vicini, spedì messaggi a Roma affinché ringraziassero il Senato e chiedessero che la loro città fosse trasformata in colonia latina, offrendo una parte dei loro terreni ai nuovi abitatori. Il Senato accolse l'offerta ed inviò una colonia con a capo i triumviri Fabio Buteo e Marco Lenate (177 a.C.). Ai nuovi coloni i pisani andarono incontro e li condussero con acclamazioni festose nelle abitazioni e zone loro destinate; così Pisa divenne colonia latina ed avendole poi permesso i triumviri l'esercizio delle leggi e delle pratiche religiose, fu considerata municipio.


Distrutta la grande città di Cartagine tutta la potenza marittima passò dai cartaginesi ai romani, almeno per quello che riguardava i porti d'Italia. Pisa divenne allora un porto di notevole importanza e vi fu stabilito un cantiere di fabbricatori navali. La vita di Pisa marinara cominciava a prendere grande sviluppo anche se ostacolata dai pirati che, in quell'epoca, spadroneggiavano sui mari. Originari del levante essi fermavano i legni delle varie città costiere depredandoli e uccidendo chiunque a loro si fosse ribellato. Perfino la gran potenza di Roma ne fu vittima più di una volta finché essa stabilì di dare a Pompeo, per un periodo di tre anni, il comando della difesa dei territori marittimi italiani. Fu così che Pisa, insieme con altri porti toscani (67 a.C.), passò sotto il suo comando e contribuì efficacemente, con i suoi figli minori e con i suoi potenti navigli, a liberare i mari da questi invasori. Per tali meriti e per il particolare attaccamento della nostra città alla famiglia di Giulio Cesare, il grande condottiero romano, Pisa ebbe l'ambito privilegio di assere dichiarata colonia militare col nome di colonia Giulia ossequiosa. Sotto T impero romano le città marittime di Venezia, Genova, Pisa e Amalfi si ingrandivano e si arricchivano con i loro commerci per le vie del mare. Pisa a breve distanza da un placido seno di mare che si ingolfava grandemente entro al suo litorale presso la cala di Labrone vi fondava nella laguna una piccola città sopra gettate di smalto e di palafitte che chiamò Triturrita. Ma per la lenta opera dei secoli, essendosi riempito quel seno e trasformato in pianura, Triturrita giacque sepolta profondamente con le sue rovine entro il Tirreno.


Nell'anno 307 Gildone, governatore d'Africa, si mise in lotta contro Roma. Allora navi in grande quantità si costruirono a Pisa, sicché una formidabile annata fu portata contro il nemico e lo sconfisse. Agli albori del 400 la marea dei barbari invade e sommerge ad ondate successive la nostra penisola: Pisa affronta le invasioni barbariche; lo attestano cippi e termini marmo-rei che sono conservati nel Camposanto Vecchio. La città tirrenica soffre nel alternarsi di rapide e aspre dominazioni ma la sua condizione di città marittima la rende più fortunata. Dopo una breve parentesi degli ostrogoti, che fu favorevole a Pisa, Totila con i suoi goti portò di nuovo i segni della barbarie. Vennero in seguito i greci che assalirono e saccheggiarono il suo porto. I longobardi, che succedettero, portarono una certa tranquillità da permettere la ripresa dei traffici, aumentati infine sotto la corona dei carolingi. Così Pisa poté iniziare l'opera assegnatale, anche perché le era concessa, di fatto, una libertà grande sotto un’apparente forma di dipendenza ai sovrani italiani ed esteri. In ogni caso fu sempre considerata come una potenza rispettabile. Dopo tante calamità e vicende, giunse finalmente l'epoca strepitosa di Carlo Magno e Pisa risorse a nuovo splendore, poiché da lui riacquistò la sua piena libertà. Questa libertà sarà benefica agli sviluppi della civiltà italiana ed europea per merito anche e principalmente dei pisani, unendo quei sentimenti che dovevano, nei secoli seguenti, riscaldare l'anima dei cittadini dei Comuni italiani. Intanto un nuovo pericolo minacciava i paesi cristiani del Mediterraneo: invadenti scorrerie di flotte islamitiche, percorrenti le coste dall'Ebro al Tevere, devastavano e saccheggiavano ovunque esse si fossero avvicinate. Siamo ora al periodo della decadenza dell'impero di Carlo Magno e il difetto di unione tra le città marittime del Mediterraneo favoriva l'intensificarsi d'imprese corsare. Pisa, in quell'epoca, popolo giovane e pieno di vigoria, sentì in sé la forza di tener testa alle orde piratiche col preciso scopo di difendere la via naturale di espansione, di salvaguardare i propri diritti, fatta audace dalla fede.


Dapprima furono imprese modeste e timide; in seguito, scaltrita dalle continue prove, tentò nuovi piani più audaci, finché incoraggiata dalle molte vittorie, inseguì il nemico fino a portare la guerra nei mari e nelle terre di questo. L'anno 828 il marchese Bonifacio, allestita una piccola flotta; mosse dal porto pisano e navigando sbarcò fra Utica e Cartagine in Africa, dove, dopo accanito combattimento, tenne testa a numerosi saraceni. In seguito a questo fatto l'imperatore Lodovico Pio confermava i privilegi concessi dall'augusto suo padre di crearsi cioè ogni anno dei consoli e vivere con le proprie leggi. I saraceni, guidati dal loro re Musetto, si stabilirono (1000) nella Corsica e nella Sardegna e di là, fecero un’incursione nel territorio di Roma, mettendo a ferro e fuoco ogni cosa. II Pontefice fu costretto a fuggire. Di ciò ebbero sentore i pisani i quali, desiderosi di difendere la Santa Chiesa, presero a cuore la causa. Onde, sotto il comando dell'ammiraglio Carlo Orlandi, una flotta di scelte navi, fornita di valorosi guerrieri mosse verso Civitavecchia. A poche miglia da questo porto si batté con pari valore finché la vittoria fu dei pisani che catturarono 18 navi e moltissimi prigionieri. L'anno seguente i pisani, imbaldanziti della recente vittoria, mossero verso la Sardegna dove, vincendo in varie località, rimpatriarono con ricche spoglie di guerra. A queste imprese successe, non meno fortunata, quella della presa di Reggio operata dall'ammiraglio Pandolfo Capronesi il 6 Agosto del 1005. Fu questa una vittoria importante poiché salvò la Calabria dalla dominazione araba. Né qui si fermarono i pisani, giacché sottomisero Amaltea, Tropea e Nicotera. Di ritorno da queste conquiste li attendeva una sorpresa. Il re saraceno Musetto, approfittando della loro assenza da Pisa, aveva invasa notte tempo la città, sprovvista di armati e, gettandovisi all'improvviso, ne aveva devastata e incendiata buona parte. La città sarebbe ormai divenuta un cumulo di cenere se un'intrepida giovinetta, Chinzeca de’Sismondi. col suono delle campane, non avesse chiamato il popolo a raccolta; onde, vista la mala parata gli invasori tornarono frettolosamente in Sardegna. I pisani ricostruita più bella (1014) la città giurarono di vendicarsi dell'offesa subita e, tornati alle sponde sarde, dopo incerta lotta, costrinsero il nemico a ritirarsi o ad arrendersi prigioniero. Ricchi delle prede di guerra, i vincitori tornarono in patria con un meritato trionfo.


Musetto, raccolta nuova gente, fece altre scorrerie (1016) sul litorale tirrenico per questo il Papa Benedetto, temendo peggiori guai, pregò i pisani ad armarsi contro il comune nemico. Fu accolto subito l'invito e, sciolte le vele ai venti i pisani ben presto s'incontrarono a fronte con Musetto ed i suoi. L'ammiraglio Marchionne Masca, parlò rincuorando i combattenti: «La libertà della patria; la vita delle vostre mogli, dei vostri figli, l'onor della Chiesa di Dio e della fede di Cristo è sulla punta delle armi vostre. Ve ne mostrerete campioni !». In breve i pisani si lanciarono sui saraceni e il mare rosseggiò del loro sangue, Molti furono fatti prigionieri tra cui la regina stessa, li ritorno in patria fu tale da ricordare i romani navali trionfi. Precedevano le navi tolte al nemico con sopra gli schiavi e la preda di guerra: dopo l'armata con i vessili spiegati e quelli presi al nemico; rullo di tamburi, squilli di trombe e suono di campane dalle rive natie dimostrarono l'unione perfetta del popolo di Pisa, il cui nome volò famoso per il mondo. Una nuova spedizione (1017), felicemente compiuta dalla flotta pisana al comando dell'ammiraglio Bindo Benigni in Sardegna , conduce ad un’occupazione, da parte di Pisa, di quasi tutta l'isola. Purtroppo in successive vicende la Sardegna, ormai terra pisana, fu riconquistata dal terribile Musetto, per questo occorse il comune sforzo dei pisani e dei genovesi per ritornarne in pieno possesso. Però la spartizione dell'isola fu altresì seme di future lotte tra le due città. Le recenti sconfitte dei barbareschi non quietarono quel popolo desideroso di lotte e d’avventure, quindi i pisani, comandati dall'ammiraglio Lamberto Orlandi, strinsero d'assedio Cartagine e se ne impadronirono. Poterono poi liberare dagli infedeli la città di Bona, fatto questo che avvenne -nel 1035 in seguito alla vittoria di Lipari dello stesso anno, dovuta questa all'abilità del comandante Sigerio Matti. Ricchissimo fu il bottino di guerra. In questa circostanza fu cominciato il Ponte di Mezzo in Pisa che, costruito prima in legno, fu completato poi nel 1046. Il feroce avversario di Pisa non si dette per vinto e, scorrendo le coste africane, suscitatore di nuove speranze, rinavigò alla volta della Sardegna ove giunse il 20 agosto del 1050. La lotta fu aspra e i pisani difesero palmo a palmo e con sacrificio enorme ogni angolo dell'isola, finché dovettero arrendersi al numero. Padrone ormai di quella terra Musetto ne cinse la corona. Pervenuta la notizia di tali avvenimenti al Pontefice, Leone IX, egli ne fu tanto addolorato che invitò i pisani a riconquistarla. Una poderosa armata guidata dal valente popolano Gualduccio si avviò verso la Sardegna (1052), ma i venti la spinsero sulle coste corse sicché i pisani ben accolti, vi piantarono le insegne del loro dominio. Musetto prevenne i nemici dandosi a fuga precipitosa ed anche la Sardegna tornò ad appartenere a Pisa a seguito di una spedizione compiuta da Jacopo Ciurmi al comando di 200 galee. Rioccupata tutta la Sardegna vi fu stabilita l'autorità dei giudici. Il valoroso console della città Giovanni Orlandì, volle tentare un'altra grande impresa nelle acque della Sicilia (1063). Con numerose galee pisane, entrate improvvisamente nel porto di Palermo, fece vuotare del prezioso carico ben sei navi avversarie dandole poi alle fiamme. Ritirò quindi la flotta, simulando abilmente la partenza; invece a poca distanza dalla città fece sbarcare valenti condottieri e truppe Scelte per investirla da terra. La lotta fu terribile: era il giorno fatidico di S. Sisto ed ancora una volta gli arabi della Sicilia, come prima quelli della Sardegna, furono sconfitti.


Con le navi colme di prede di guerra, i combattenti rientrarono dal porto pisano nella loro città dove ricevettero accoglienze trionfali. Fu proprio in seguito a tale vittoria (1063), che fu dato inizio alla costruzione della celebre Cattedrale pisana nel punto dove prima sorgeva la chiesa di S. Reparata e dove sembra all'epoca romana sorgesse il grande palazzo di Adriano. Nell'anno 1066 ed in quelli immediatamente seguenti ebbero inizio le prime avvisaglie della lotta fra Genova e Pisa. I genovesi, gelosi per le vaste conquiste pisane fatte in Corsica ed in Sardegna, cominciarono a molestare i navigli della città toscana, perciò avvennero frequenti contrasti e scaramucce tra i legni battenti le insegna delle due città contendenti. La flotta pisana sconfigge quella genovese presso la foce dell'Arno (1070-75), impadronendosi di sette galee molto ricche e occupa l'importante castello di Rapallo, togliendolo ai genovesi. L'anno 1081 è caratterizzato dall'approvazione fatta dall'imperatore Arrigo IV di un codice marittimo che servì in seguito a tutte le Nazioni ed assicurò integrità, giustizia e uguaglianza. Le coste dei nostri mari erano ancora scorrazzate da bande corsare, degne discendenti di Musetto, quindi il Papa Vittore III si adoperò di conciliare le due contrastanti repubbliche marittime cristiane di Pisa e di Genova per cacciare il nemico minaccioso. Preparata una potente flotta questa si portò presso Tunisi dove riportò piena vittoria sugli infedeli; furono poi conquistate Damiata e distrutte Almadia e Sibilia. Fu condottiero il valoroso ed infelice Ugone Visconti il quale morì combattendo da prode. Il loro re sborsò molti tesori, promise di non corseggiare più lungo le coste d'Italia e rilasciò tutti gli schiavi cristiani (1089). Dopo questi trionfi sui barbareschi il Pontefice Urbano II concesse ai pisani e al valoroso vescovo l'isola della Corsica, non solo, innalzò il vescovato di Pisa ad arcivescovado con la supremazia sui vescovi della Corsica stessa. Intanto si maturavano gli eventi di grandiose spedizioni in Terra Santa le quali entusiasmarono i cristiani di tutto il mondo. Da ogni parte al fatidico grido di «Dio lo vuole» si adunavano folle di fedeli per partire nei luoghi santi a difesa del Santo Sepolcro.


L'arcivescovo di Pisa, Daiberto, che assisteva all'assemblea di Chiaromonte, tornato in patria, parlò con calore e con zelo della grande impresa ai pisani, i quali, con i genovesi e con i veneziani, si armarono e fecero vela per l'oriente. L'arcivescovo stesso, che il Pontefice aveva nominato suo legato per la Crociata, fu investito del supremo comando della flotta e dell'esercito. Presa Nicea e Antiochia i pisani ottennero per gli abitanti di quest'ultima la libertà di commerci ed il potere di amministrarvi la giustizia. In altra spedizione di 120 galee comandate da Daiberto (1099) i pisani parteciparono largamente alla guerra santa compiendo atti di valore. Goffredo, Baldovino ed Eustachio, fratello di lui, unitamente a Cucco Ricucchi e Coscetto del Colle, cittadini pisani, furono i primi a guadagnare la sommità delle mura e a penetrare nella città santa: il Sepolcro di Cristo fu così liberato. L'arcivescovo Daiberto fu eletto patriarca di Gerusalemme e fu egli che investì del regno il pio Goffredo. Compiute le conquiste, l’armata pisana si mise sulla via del ritorno, non senza prima avere ottenuto forti vantaggi dall'imperatore Alessio che aveva il suo dominio in quei paraggi, e dal quale era stata precedentemente molestata: ed essi consistettero specialmente in questo, che i navigli pisani avrebbero potuto scorrere i mari dell'impero orientale senza temere alcun danno. Da queste imprese i crociati portarono a Pisa molte ricchezze e diverse reliquie come un frammento della Croce del Cristo, un vaso di porfido delle nozze di Cana, una porta di bronzo donata da Goffredo di Buglione e i corpi dei santi Nicodemo, Gamaliele e Abibone, i quali furono posti nella Cattedrale. In seguito, nell'anno 1101, pisani e genovesi s’impadronirono di vari porti della Siria.

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E' dì questo tempo il completamento della nostra Primaziale. Un'altra spedizione, sotto gli ordini del console Ildebrando Visconti, si recò in Terra Santa, dove si trattenne quasi tre anni per tutelare gli interessi della Repubblica; ed una quarta ne fu organizzata, unitamente ai genovesi, perciò fu possibile la conquista di Sidone, Tripoli di Siria ed altre località. Le località di Laodicea e Solino, presso Antiochia, furono espugnate dai pisani e dai genovesi (1106), per questo le due città tirreniche poterono stabilire in esse il commercio franco accrescendo la loro prosperità di popoli marittimi. In quel tempo sorse una contesa fra Pisa e Lucca. Uno dei motivi certamente fu quello dell'invidia che quest'ultima città portava alla vicina per l'accrescersi della sua potenza. Varie scaramucce si ebbero intorno al castello di Ripaffatta, con sorte alterna. L'intervento dell'imperatore Enrico V venuto in Toscana riuscì a pacificare le due città. Pisa ormai si andava orientando verso l'Impero dando non poche preoccupazioni al Pontefice e alla contessa Matilde che parteggiando per lui nella lotta per le investiture, aveva ereditato dallo sfasciamento del vasto territorio di Carlo Magno, il marchesato di Toscana, comprendente anche varie terre emiliane. Nell'anno 1111, Pisa stipula un trattato di pace e di commercio con l'Impero greco che costituì grandi vantaggi alla Repubblica marittima del Tirreno. Ora la storia pisana registra un grande avvenimento; la spedizione delle Baleari. Le coste spagnole e le isole di Maiorca, Minorca e Iviza erano state occupate dai saraceni cacciati dalle coste settentrionali dell'Africa. Era loro capo, che compiva continue scorrerie a danno dei cristiani, il moro Nazaradeo re di Maiorca. D'altra parte vari elementi costituivano la necessità di una lotta contro questo capo di pirati. Il giorno della Pasqua di detto anno, invitati anche questa volta dal Pontefice, i pisani, ispirati dalla parola affascinante del loro arcivescovo Pietro Moriconi, si mossero contro i saraceni. Il 6 agosto, giorno di S. Sisto, 300 navi lasciavano il lido pisano dirigendosi verso la Sardegna dove accrebbero il loro naviglio salpando di poi verso le Baleari. Alla fine del terzo giorno di navigazione furono colti da una terribile tempesta finché poterono raggiungere le coste della Catalogna dove l'ambasciatore Orlandi si abboccò col conte Raimondo Berengario di Barcellona, ottenendo franchigia e libertà di comando. Con la spedizione delle Baleari Pisa aveva aumentato notevolmente il proprio prestigio militare e politico, rafforzando le basi di un sempre maggiore sviluppo economico. Pisa e Lucca sono di nuovo in armi (1117): vari furono i motivi ma più di tutte la rivalità di potenza fra le due città. I lucchesi invasero di sorpresa la Val di Serchio spingendosi verso il mare, ma i pisani passarono presto alla difesa respingendo i nemici oltre il vecchio confine. E' di quest’epoca (1132) l'elezione a Roma del Papa Innocenzo II, contro il quale una fazione avversa di cardinali nominò invece Anacleto II (l'antipapa). Innocenze II dovette ritirarsi a Pisa dove fece concludere la pace fra pisani e genovesi per l'ennesima volta in lotta. Dai pisani il Papa fu aiutato a riconquistare i suoi possessi romani e per breve tempo lo scisma venne a cessare. L'antipapa però, rifugiato nel Castel S. Angelo, molestava continuamente il vero Papa onde questi "lasciò Roma dirigendosi di nuovo a Pisa dove indisse un Concilio per tutti i vescovi dell'occidente. I pisani mossi dalle preghiere del Papa Innocenze, armano 46 galee, nel corso di pochi giorni, e ne affidano il comando all'ammiraglio Pietro Albizzoni (1136), inviandolo contro Ruggero re di Sicilia. Dopo un feroce assalto dato dalla flotta alla città di Amalfì, questa cade in mano dei pisani: la flotta di Ruggero, costituita da 60 galee, è sconfitta. Si ritiene che dalla conquista della ricca città i pisani traessero i preziosi codici delle Pandette di Giustiniano (commentate in seguito dal pisano Giovanni Borgundio), i quali trasportati in Pisa, vi furono religiosamente custoditi fino al 1406, anno in cui la città cadde in mano dei fiorentini. Dopo queste vicende il Pontefice poté tornarsene a Roma non senza concedere ai pisani che l'avevano lungamente ospitato e aiutato, notevoli privilegi (1137).

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Sempre per esortazione di Papa Innocenzo (1140), cui si aggiunsero quelle di Corrado, imperatore, i pisani allestirono una nuova flotta da inviarsi contro quella di re Buggero. Impadronitisi dell'isola di Ischia e della città di Sorrento si incontrarono il 20 luglio con la flotta avversa e, dopo lunga ed aspra lotta, là sconfissero sottoponendo i castelli di Maggiore, di Rivello, di Trani, di Scala, di Scalella, di Rocca Fratta e Pugeruola, riducendo nuovamente alla loro obbedienza la ribellata città di Amalfi. Il 24 luglio strinsero d'assedio Salerno, città molto fortificata, che finalmente cadde in loro potere. Fu tale il terrore che suscitarono queste rapide e fortunate imprese che i napoletani, lungi dall‘opporre la minima resistenza, inviarono ai pisani le chiavi della loro città arrendendosi a discrezione. Né qui sì fermano le conquiste di Pisa. I valorosi combattenti dell'Amo, tolgono ai saraceni l'isola africana di Tabarca (1141), famosa per la pesca del bellissimo corallo che in grande quantità nasceva fra le sue scogliere, che procurò alla Repubblica un nuovo e ricchissimo ramo d'industria. Alla morte di Innocenze II fu eletto Pontefice, per breve tempo, Celestino II, indi Lucio II e nel 1145 fu fatto Papa il pisano Paganelli di Montemagno di Calci. Nonostante non fosse cardinale ebbe l'onore di salire al soglio pontificio col nome di Eugenio III. I pisani, incitati dalle vive preghiere del loro concittadino Papa Eugenio III prendono parte ad una nuova Crociata (1147), mettendo in ordine una potente flotta il cui comando affidano all'ammiraglio Ranieri Bottacci. Siamo nell'anno 1153 quando il concittadino Diotisalvi da inizio al grandioso Battistero che riuscirà, in ordine di tempo, il secondo capolavoro della piazza dei «miracoli». Federico I di Svezia, detto il Barbarossa, nel 1167 con un poderoso esercito calò per la quarta volta in Italia; mosse contro Papa Alessandro III, stringendo d'assedio Roma. Rivoltosi per aiuto ai pisani questi gli misero a disposizione 50 galee, 35 saettie e molti altri legni. La flotta entrò dalla foce del Tevere e risalì fino a Roma mentre questa era attaccata dalle truppe imperiali. La città sarebbe capitolata se una fiera epidemia non avesse obbligato gli assedianti ad allontanarsene sollecitamente. Una flotta pisana di 40 galee al comando dell'ammiraglio Burgense Dal Borgo (1169) allestita per recare aiuto ad Amerigo, re di Gerusalemme, assedia e espugna la città di Alessandria di Egitto. Bonanno Pisano, coadiuvato da Guglielmo di Innspruk da principio al più celebre campanile del mondo (1174), la famosa «Torre pendente», completato poi con la cella campanaria, due secoli dopo, da Tommaso Pisano. Frattanto dal breve pontificato (appena due mesi) di Urbano III, morto nel 1187, si arrivò ad nuovo Conclave in Pisa per l'elezione del Pontefice.

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Fu eletto, il 6 gennaio dell'anno successivo, il Papa Clemente III, vescovo di Palestrina e già appartenente al convento vallombrosano di S. Paolo a Ripa d'Arno, in detta città. E’ bandita altra Crociata (1188) per riprendere Gerusalemme caduta di nuovo in mano infedele. Pisa volle prendere parte a questa santa impresa allestendo una flotta di 52 galee affidandone le sorti all'arcivescovo Ubaldo Lanfranchi. Prima di tornare in patria, questi dispose che diverse imbarcazioni fossero caricate di terra tolta dal Monte Calvario, la quale aveva fama di distruggere rapidamente i cadaveri e di ridurli allo stato di scheletro nel breve periodo di tre giorni. Ik5dqq Questa terra trasportata in Pisa fu per desiderio di balclo posta nelle vicinanze del Duomo ed intorno alla quale, per volere della Repubblica, sorse poi nel 1228 il magnifico Camposanto, opera di Giovanni di Simone. All'espansione comunale della città seguiva di pari passo quella politica. Una maggiore trasformazione costituzionale della Repubblica si ebbe verso il 1190; dopo l'esperimento del console si passò rapidamente a quello del podestà coadiuvato dal Senato e infine dal Consiglio degli anziani del popolo. Vi erano poi capitani degli ordini mercantili e delle arti, il capitano della milizia, i consoli cittadini, oltre ai consoli del mare. Il primo podestà della città fu Tedicio di Castagneto dei Gherardesca il quale con i consoli, il Senato, il Capitolo dei canonici, il clero e i cittadini parteggiavano tutti per la politica imperiale e quando venne a Pisa Enrico VI ebbe accoglienze quasi trionfali. L'imperatore riconobbe tutte le concessioni dei feudi fatte dal padre, comprese quelle sulle isole tirreniche e sulla costa da Portovenere a Civitavecchia. La città di Pisa aveva mire anche sull'Adriatico per cui, strette alleanze con Ancona, Ragusa e Zara, si recò con una flotta lungo la costa dalmata per assalire Fola ed altri porti. Venezia intervenne e si ebbe lotta senza decisione. Il Papa Celestino III conciliò le due repubbliche e fu fatta pace. Pacificato l'oriente, stipulato un trattato con l'impero greco, i pisani s’intesero con l'imperatore germanico Enrico VI per seguire la politica imperiale. Enrico VI prima di sostare a Pisa, volle amicarsi anche i genovesi e con le flotte dei due popoli marinari si diresse al sud contro i normanni (1194). La marcia fu quasi incontrastata e le città della Campania e della Puglia si arresero. Conquistata Messina sorse lotta fra pisani e genovesi: i primi ebbero perdite per mare, i secondi per terra. Un rappresentante dell'imperatore compose la contesa e riconciliò le due città. Però i fatti di Messina e il dominio delle isole tirreniche riaccesero ben presto il dissidio fra Pisa e Genova. Il Papa Celestino III, che desiderava la pace fra le due città, mandò in Toscana il cardinale Pandolfo Masca per cercare di venire ad un accordo: ma per quanto a Lerici, nel 1196 si fosse fatta una riunione a tale scopo, non fu possibile giungere ad un’intesa. Si andava intanto maturando una coscienza antimperialista ed anche in Toscana, seguendo l'esempio della lega Lombarda, fu fatta una nuova lega, detta di S. Genesio. Tale aspirazione veniva favorita dalla Chiesa che vedeva bene il rendersi consapevoli i Comuni della loro forza. Il cardinale Masca riuscì in Toscana ad unire città in lotta fra loro, sotto la bandiera dell'antifeudalità, che in definitiva significava svincolarsi dall'autorità imperiale. Alla lega di S. Genesio, nel novembre 1197 aderirono quasi tutte le città toscane ad eccezione di Pisa e di Pistoia. Nonostante questo suo isolamento la grandezza e la potenza di Pisa erano ancora intatte e la prosperità commerciale aveva raggiunto un alto vertice. Pisa intanto invia in oriente una flotta al comando dell’ammiraglio Sigerio Visconti (1217) in aiuto dei combattenti delle Crociate.

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In questo tempo hanno inizio le prime avvisaglie di una lotta che doveva dolorosamente prolungarsi per qualche secolo; quella dei guelfi e dei ghibellini. In breve vi parteciparono un po' tutte le città toscane parteggiando per l'imperatore, i ghibellini e per il Papa, i guelfi. Pisa fu ghibellina ed ebbe contro sé buona parte delle consorelle regionali. Frattanto il Papa Gregorio IX ottenne dai giudici di Gallura, Arborea e Torres, in Sardegna, il giuramento di piena fedeltà. Ciò spiacque molto a Pisa che dell'isola era padrona, per cui i pisani vi stabilirono il loro potere a mezzo di Enzo, figlio di Federico II, il quale andò colà ad abitare (1237). Tale occupazione irritò il Pontefice che scomunicò Federico. La lotta fra i guelfi e i ghibellini si accese in Toscana con maggior violenza. Ora avvenne un altro episodio tristissimo di lotte fra-terne, Genova aveva allestite parecchie navi sulle quali si accinse a trasportare molti prelati a Roma adunati dal Papa Gregorio per un Concilio generale (1241). I pisani con a capo Ugolino Buzzaccherini secondo alcuni, o Bonaccorso da Padule, secondo altri, partigiani dell'imperatore, si appostarono lungo le coste delle loro isole. Al giungere della flotta ligure dai legni pisani balzarono i combattenti e si arrivò ad una violenta battaglia. Alla fine i genovesi furono disfatti e molte loro navi calate a fon-do; vari vescovi e prelati annegarono e circa diecimila si ebbero fra morti e feriti. In seguito a questo fatto il Pontefice scomunicò i pisani, li privò della loro dignità arcivescovile e di altri privilegi, nonché del dominio della Sardegna. Solo nel 1257, cioè dopo un periodo di sedici anni, i pisani furono liberati dall'interdetto che su loro gravava, per opera di Papa Alessandro IV col patto che, in espiazione del grave fallo commesso, fondassero un vasto ospedale nel corso di cinque anni, impiegando nella costruzione del medesimo la somma di dieci mila lire (cifra notevole per quei tempi !). Ebbe cosi origine in Pisa l'odierno ospedale di S.Chiara. Alcuni anni dopo serpeggiò di nuovo il terribile duello tra le due marinare repubbliche che si protrasse, con vicende alterne, per alcuni anni.


La cronaca registra il seguente episodio. Eravamo nell’anno 1244 quando i pisani richiesti di soccorso dagli abitanti di Savona, stretti d'assedio dai genovesi ai quali si erano ribellati, accorrono in loro aiuto con ottanta galee capitanate dall'ammiraglio Bernardo Fagioli. Al loro avvicinarsi i genovesi tolgono l'assedio e si ritirano nella loro città abbandonando Savona che apre le porte ai pisani come ai veri liberatori. I pisani furono considerati come cittadini di Savona ed esonerati da pagare tasse di gabella. Con l'inizio della seconda metà del secolo XIII (1250) la lotta tra Pisa e Genova si allargò sulla Toscana tormentata dalle fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Con l'aiuto dei senesi Pisa affrontò gli avversari a Santa Maria a Monte, a Montopoli ed infine a Pontedera: le sortì dei feroci combattimenti furono alterne. Pisa poi venne in soccorso dei ghibellini della Lunigiana comandati dal Malaspina e fece arrendere il castello di Pontremoli. Una potente flotta pisana conduce Re Corrado dal loro porto fino a Napoli (1253) perché possa impadronirsi della Sicilia e della Puglia. Giunti a Napoli stringono d'assedio questa città la prendono e ne disfanno le mura. I decenni che seguirono furono ancora caratterizzati da aspre lotte fra guelfi e ghibellini. Venne Corradino a Pisa (1267) e gli furono offerti danari e mostrata la flotta destinata a sollevare in suo favore il reame napoletano: questa composta di trenta galee e di altri legni minori dall'Arno si avviò verso la Sicilia. Dopo aver arrecato" danni non lievi, si impossessa di Ischia, Castellammare, Sorrento e Posetano. Incontratasi con la flotta di re Carlo d'Angiò le dà la caccia inseguendola fino a Messina dove la raggiunge e né abbrucia diverse navi. Occupa Milazzo e solleva in favore di Corradino quasi tutta l'isola.

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Pisa portò le sue galee in tante parti del mondo; esse approdarono in ogni angolo del Mediterraneo, sulle coste della Libia, della Cirenaica, dell’Egitto, della Sìria, della Palestina, dell'Asia Minore., consentendo ai mercanti, associati ai marinai, di formare le carovane spingentisi fin quasi nell'Etiopia a sud, sulle rive del Tigri e dell'Eufrate ad est. I pisani eressero porti come quello imponente popolato di trofici di Tana alla foce del fiume Don; indirizzarono spedizioni verso i più sconosciuti paesi del Caucaso, sulle rive del Caspio, ai piedi degli Urali, ed oltre, Ire cristiani dell'Asia occidentale e gli stessi arabi delle coste settentrionali dell'Africa avevano chiamato e continuarono a considerare Pisa capitale della provincia di Tuscia (Toscana). La Francia meridionale, la Spagna e prima di questa le isole Baleari, poi le grandi isole di Corsica, Sardegna e Sicilia furono meta pisana. I nostri concittadini di allora ^tornando nei paesi che videro i cartaginesi e gli arabi si spinsero fin nella Lusitania, penetrando fra le valli su cui si alzano le Sierre e giunsero fino alle rive dell'Oceano verso il quale, cauti ma ansiosi di imprese, si erano già avventurati i lontani fenici e fra breve si sarebbe avventurato, in modo ardimentoso, Cristoforo Colombo. L'ammiraglio Guinicello Sismondi (1282) parte dal porto pisano con 35 galee e si dirige verso Genova con l'intento di arrecare il maggior possibile danno all'odiata e potente rivale. Da Portovenere fino a Genova scorre da vincitore tutta la riviera, finché entra audacemente nel suo porto. Brucia (1282) grossi navigli ivi ancorati. In segno di scherno ed insieme dì vittoria fa dai suoi lanciare entro la città nemica mille frecce con ghiera d'argento e gran numero di pietre coperte di scarlatto rosso. L'ardito capitano si sarebbe in breve tempo impadronito della città se essa non fosse stata avvertita di notte da un'oscura e vigile donna chiamata Mammona che abitava sul porto e che, novella Chinzeca de’Sismondi della leggenda pisana, salvò la patria da sicura rovina. Una flotta pisana si dirige verso Genova con l'intento di (1284) distruggerne il porto. Comandano la spedizione Ugolino della Gherardesca e Andreotto Saraceni. Giunti che furono nel porto della città nemica e, trovatala sprovvista di flotta e di milizie, se ne allontanano, reputando azione riprovevole occupare una città senza difesa; si limitarono a lanciare frecce e pietre come i loro predecessori.

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Ma una lotta all'ultimo sangue doveva venire fra le due potenti repubbliche marinare ed essa avvenne il sei agosto (1284). La causa occasionale si presentò facilmente e consistette nella reciproca distruzione di alcuni navigli, avvenuta nel mar Tirreno, per questo un araldo genovese si presentò ai pisani ad annunziare che i suoi li attendevano a battaglia. A Pisa allora fu tutta una febbrile preparazione di navigli dei quali ebbe il comando il podestà Morosini. Ben presto la flotta fu allestita, si schierò pronta alla benedizione dell'arcivescovo e all'acclamazione di un'immensa folla. Le grida, i canti, i suoni echeggiavano sul fiume, sulla città e sui colli vicini, mentre le navi si avviavano verso il loro destino. Comandava le armate il fior fiore del patriziato pisano. Questa si accostò allo scoglio della Meloria, in fronte all'odierna Livorno, proprio dove alcuni anni prima, come abbiamo narrato, erano annegati vescovi e cardinali che anelavano a Roma al Concilio. Ed il fatto che qui li colse la terribile sventura, che ora descriveremo, fu attribuito dopo, da molti, come una giusta punizione del Ciclo. Le due armate si trovarono ben presto di fronte. Quella genovese comandata da Umberto Doria, la pisana dal Morosini, coadiuvato dal conte Ugolino e dal Saraceni. Infervorati i combattenti di ambedue le squadre dai rispettivi ammiragli, dopo un momento, di silenzio, avvenne il segnale della battaglia. La zuffa fu di una crudeltà indescrivibile: sassi, lance, frecce, spade, furono le armi terribili; le navi insieme strette trasformavano la lotta in battaglia terrestre. Centinaia i feriti e i morti; moltissimi i caduti in acqua talché, impedendo il remare, venivano risommersi dalle onde e, in quel mare divenuto rosso per il sangue dei combattenti, galleggiavano le spoglie dei cadaveri. All'incitamento dei comandanti rispondevano le grida furibonde dei guerrieri. Le sorti della battaglia erano indecise finché la capitana del genovese Zaccaria si precipitò sull’ammiraglia pisana comandata dal Morosini e, per quanto lui ed i suoi opponessero fiera resistenza, furono tremendamente battuti; lo stendardo della Repubblica squarciato e la vittoria a favore dei genovesi decisa.

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Il conte Ugolino colse quest’istante per dare il segno di fuga, non per viltà, ma, come affermano gli storici, per indebolire la sua patria, onde ridurla più facilmente in servitù. Recatosi a Pisa vi portò la triste notizia della disfatta che fu veramente disastrosa: 28 galee catturate; 7 calate a fondo; cinquemila morti; 11000 prigionieri tra i quali il podestà e il Saracini. Pisa perde i suoi migliori guerrieri e nacque allora il detto: «Chi vuoi vedere Pisa vada a Genova». Il dolore di Pisa per la disfatta subita fu quanto mai si possa immaginare grandissimo e non vi fu alcuna casa che non avesse a piangere qualche suo congiunto. Nondimeno anche la Repubblica rivale, pur uscendo vittoriosa, ebbe estinti i suoi figli migliori. La battaglia della Meloria fece impallidire improvvisamente la stella che per tanti secoli aveva felicemente vegliato sui destini della Repubblica pisana e che la sua vivida luce aveva sparso sopra un vastissimo territorio, guadagnato con tanto sangue e con tanta gloria. E' questa senza dubbio la data più funesta della storia di Pisa. La Meloria chiuse il ciclo delle glorie marinare di Pisa, segnò il tracollo della potenza commerciale di un piccolo Stato assurto a importanza internazionale. Ma se la fatalità costrinse l'antica Alfea a subire una delle più umilianti disfatte che la storia registri, questa silenziosa città dell'Arno attinse ad altra fonte nuovi elementi per cingere di gloria il suo diadema regale. Guido da Montefeltro, chiamato dai pisani a combattere fiorentini e guelfi (1293), nuovamente stretti contro di loro, ne risolleva per breve momento le sorti, ma Pisa, bisognosa di tregua, la ottiene a condizione di licenziare, come fece, il Montefeltro. Poco dopo deve umiliarsi a comprar pace dai genovesi cui cede la Corsica: così l'antico dominio del mare ha termine; (1300) le forze e il commercio della città languiscono. Sempre più ristretto va diventando il campo dell'attività pisana; all'epiche gesta di un tempo, che avevano ripercussione in tutto il mondo e nelle quali Pisa rappresentava una grande civiltà, si sostituiscono ora sterili contese intestine di parte e di casta. Il sec. XIV trascorre in queste continue discordie interne ed in un’alternanza di successi e di insuccessi che non può far riprendere alla nostra città la posizione perduta: i partiti e gli interessi di classe rompono l'unità di azione del Comune, la grande tradizione ghibellina si affievolisce; per opportunismo politico Pisa elegge suo podestà Papa Bonifazio Vili (1301). Ecco ora altre cause che rendono insostenibile il primato pisano nella politica e nel commercio; esse sono: il rapido sviluppo di altri Comuni, l'aumentata importanza delle città del retroterra (specialmente Firenze) -, la concorrenza di Genova e di Venezia sul mare e infine il decadimento del suo porto. La presenza di Enrico VII disceso a restaurare l'autorità imperiale, risollevò in Pisa ghibellina grandi speranze, ma furono presto, con dolore, troncate dalla morte di lui. Al crescente decadimento della potenza militare ed economica va unito quello degli ordini politici che di tale potenza erano stati frutto.

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Il libero Comune cede così alle Signorie; il popolo cerca in altri l'energia che più non trova in se stesso e lascia che capitano e podestà si arroghino padronanza. Primo signore della città sarà Uguccione della Faggiola. Egli prese Lucca, che ai danni di Pisa erasi fatta forte, vinse i collegati guelfi nella grande battaglia di Montecatini, rialzò Pisa. Ma volendo tiranneggiare, venne in odio e fu cacciato (1316). Al Faggiola succedono i Gherardesca, che non poterono impedire la perdita della Sardegna espugnata dagli aragonesi. A loro seguì Castruccio Castracani, prima imposto come vicario imperiale da Ludovico il Bavaro, poi affermatosi per proprio conto signore della città (1327-28). A lui segue il Tarlati, nominato dal predetto imperatore dopo la morte di Castruccio, Ma questi dovette ben presto cedere il comando a Bonifazio Novello della Gherardesca (1), il quale con molta saviezza, resse le sorti della città. La Signoria pisana passò poi ad Andrea Gambacorti (1329-1341), indi fu perfino spontaneamente offerta a Carlo IV imperatore nel suo passaggio da Pisa, pensando che egli finalmente potesse riuscire a comporre le discordie cittadine. Intanto contrasti e guerre continue contro Firenze, con cattivo esito finale per i pisani, peggioravano le condizioni della Repubblica che precipitava in sorti tristissime. Dopo il governo di un dell'Agnello che si proclamò doge si rinnova la Signoria dei Gambacorti con l'ottimo Pietro che governa saggiamente, ucciso poi dal segretario lacopo d'Appiano (1392), seguito da Gherardo che mercanteggia la sua città coi Visconti prima e coi fiorentini poi (1405).


(1) — Si può questi considerare il fondatore della Università di Pisa. Preceduta da scuole di grande fama e da illustri dottori, quali un Bulgaro (m. nel <1166>) insigne giureconsulto e da un Burgundio (m. nel 1194) che emerse nel diritto, nella filosofia, nelle lettere, nella teologia, e perfino nella medicina, e da altri uomini valenti, quale Enrico Diacono (il cantore della impresa delle Baleari), Leoardo Fibonacci (il divulgatore dei numeri arabi in Europa) e da una numerosa schiera di altri luminari che irradiarono della loro luce possente le tenebre di quel tempo, sorse, per volontà del saggio podestà Bonifacio Novello della Gherardesca un Istituto accogliente vari studi e che egli chiamò «Gynnasium». Era questo il primo nucleo della Università pisana, detto anche «Sapienza» che dopo alterne vicissitudini, dovute ad avvenimenti politici, fu consolidata definitivamente da Cosimo 1° dei Medici, il 1° novembre 1543 con solenne cerimonia.

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Lo sdegno rianimò la fierezza antica; i pisani insorgono e, dimenticata ogni divisione di parte, si oppongono accanitamente alla occupazione fiorentina: indignati si chiudono nelle loro mura e sostengono un assedio veramente memorabile che è una pagina gloriosa per la storia di Pisa (1406); finché stremati, avviliti, dalle lunghe discordie, si oppongono invano; i fiorentini divengono padroni della città e Gino Capponi, commissario della Repubblica di Firenze ne prende possesso. Fino alla fine del secolo XV essa fu serva e la servitù e il malgoverno dei vincitori ingenerosi la ridussero in pessimo stato. La venuta in Italia di Carlo Vili diede animo ai pisani per un ritorno a libertà. Aiutati dalla piccola guarnigione francese, capitanata dal cav. D'Entragnes, scacciarono i fiorentini e sostennero contro di loro una lunga disperata guerra (1494), l'ultima. Per due volte respinsero gli assedianti, poi furono sopraffatti e si arresero capitolando. Con questa strenua, per quanto sfortunata difesa si chiude la storia di Pisa. Rimane soltanto ricco di luce il ricordo dell'eroismo dei pisani che, contrastando il dominio di Firenze arrivarono a soffrire la fame pur di rimanere liberi, finché, vinti per i terribili stenti (1509), ottennero cedendo, onorevoli condizioni, giusto premio alla loro sublime resistenza. Il secolo XVI trova quindi Pisa soggetta a Firenze; gli stenti dell'assedio, l'assoluto abbandono dei traffici e, in seguito alla caduta, l'esodo delle principali famiglie la fecero immiserire. Ne sarebbe presto avvenuta la completa rovina se, pochi anni dopo Alessandro de' Medici, proclamandosi duca non avesse a sua volta assoggettata Firenze, per cui fu dai pisani festeggiato come liberatore e vendicatore. Casa Medici era fiorentina e mirava al Principato: intuì subito la convenienza politica di un trattamento pari fra le varie città sulle quali il Principato doveva estendersi, sostituendo gradatamente al tirannico prepotere di una città sulle altre, la comune subordinazione di tutte al proprio governo. Lo Stato moderno (1533), con l'organica colleganza delle sue parti, si andava delineando. E Pisa, che per importanza non foss'altro di memorie, veniva pur sempre seconda dopo Firenze, nel ducato dei Medici ebbe cure veramente grandi e benefiche se anche interessate.

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Cosimo I istituì l'ufficio dei Fiumi e Fossi (1545-47) per regolare il regime delle acque nella pianura pisana, risanandola e rendendola prospera; fondò l'Ordine sacro e militare di S. Stefano con sede in Pisa, dando così all'antica città qualche ritorno di fasto e traendone Occasione per abbellirla di nuovi fabbricati. Con la fondazione del sacro Ordine militare Stefaniano si apre un nuovo periodo storico per Pisa e per l'Italia. Motivi religiosi e economici (1582) furono il fondamento della nuova istituzione. Religiosi perché i cavalieri avevano il precipuo scopo di arrestare l'invasione islamitica nel Mediterraneo; economici perché si voleva porre un argine alle troppo frequenti incursioni piratiche dei barbareschi che miravano direttamente alle merci delle navi cristiane. L' anno della storica fondazione dell'Ordine, fatta da Cosimo I risale al 1562 è l'istituzione svolse la propria, attività anche quando, dopo la morte di Gian Castone, la Toscana passò dai Medici ai Lorena. Una cerimonia imponente svolgevasi la mattina del 15 marzo 1562 nel Duomo di Pisa alla presenza di un’enorme massa di popolo entusiasta; in mezzo allo splendore delle luci e delle ricchissime uniformi di gala, il Nunzio Pontificio consegnava al duca Cosimo I gli Statuti approvati da Papa Pio IV, relativi alla fondazione dell'Ordine. Mons. Cornaro vescovo di Treviso, lo insigniva dell'abito e del titolo di Gran Maestro dell'Ordine di S. Stefano. I cavalieri stefaniani dovevano considerarsi sempre mobilitati e nessuno di loro doveva sottrarsi all'obbligo di partecipare alle varie imprese. All'atto della vestizione i cavalieri dovevano pronunziare solenni e rituali professioni. I maggiorenti dell'Ordine erano il commendatore maggiore, il gran contestabile, l'ammiraglio,' i priori, i balì, i grandi cancelliere, tesoriere, conservatore, ospitaliere e il monsignor priore della conventuale. L’Ordine poi comprendeva tre categoòhe di cavalieòè; mìliti, ecclesiastici e serventi. I primi erano detti carovanisti perché formavano le cosiddette carovane naviganti e combattenti; i secondi si suddividevano in benefiziati nobili e in sacerdoti d’obbedienza. I cavalieri serventi si dividevano pure in due classi: serventi d’armi e serventi dì ufficio. Pisa fu prescelta come residenza dei cavalieri di S. Stefano perché allora più vicina al mare e alla sua nascente base navale di Livorno. Due magnifici monumenti furono innalzati su quella piazza che oggi conserva lo storico nome: il palazzo della Carovana e la chiesa conventuale, opere insigni del Vasari. II palazzo della Carovana, oggi Scuola Normale Superiore, costruito dal Vasari sull'antico edificio degli anziani della Repubblica, serviva al tirocinio dei novizi, al regolare corso d'istruzione dei cavalieri e per il consueto annuo ritiro degli esercizi spirituali.

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Nel periodo della sua gloriosa affermazione (1562) la flotta stefaniana comprendeva le seguenti grosse unità navali; Pisana, Livorniana, Siena, Padrona, Capitana, S: Maria, S. Cosimo, S. Margherita, S. Carlo e S. Cristina. Ciascuna di queste vantava al suo attivo un servizio brillantissimo e successi frequenti coronati di gloria. La flotta stefaniana s’impose al rispetto delle grandi potenze europee; anzi, la stessa Spagna, oltre alla flotta di Malta chiederà il rinforzo dei cavalieri di S. Stefano e navigherà di conserva con questi per le imprese guerresche più difficili. Nella famosa battaglia di Lepanto alle forze stefaniane fu assegnato in prevalenza il posto d’onore. Nella grande rivista navale che il generalissimo della lega cristiana don Giovanni d’Austria passò alle forze collegate nel porto di Messina, l’8 settembre 1571, le nostre navi furono ammirate per l'ordine, per la pulizia, per i baldi cavalieri che dettero un magnifico spettacolo coreografico. Durante lo storico ed aspro combattimento capitani e cavalieri combatterono da leoni tanto da determinare la vittoria dell'armata cristiana impegnata contro i turchi. Il Papa Pio V, compreso l'animo dei marinai e dei soldati, dei cavalieri senza macchia e senza paura, volle celebrarne la fama e volse ogni sua speranza a questa nuova marina per il trionfo della cristianità e per la sicurezza del Mediterraneo. In altre azioni navali furono poi conquistate Tunisi e Biserta e la flotta ritornò in patria, carica di prede e di gloria. Tanta e tale era ormai dunque l'audacia dei cavalieri di S. Stefano, il loro spirito valorosamente aggressivo, da non esitare a cimentarsi nella proporzione di uno contro venti. Dall'eletta schiera dei volontari di questo Ordine monastico militare uscirono valenti ufficiali come il Biffoli, il Piccolomini, il Medici, il Lioni, il Martelli, e tanti altri che valorosamente combatterono a Lepanto, rendendo illustre l'Ordine cui appartenevano Gli ammiragli Fabio Galerati, Cesare Canaviglia, Bernardino Ridolfi, Luigi De Rossi, il Bartolani, Pietro Capponi e molti altri furono veramente grandi e resero temuti e rispettati il nome e la bandiera dei cavalieri di S. Stefano. Ma su tutti eccelse per abilità l'ammiraglio lacopo Inghirami le cui gesta furono famose in tutto il mondo. Nato a Volterra nel 1565 da famiglia patrizia fu indubbiamente il più grande ammiraglio dell'armata stefaniana. Entrò nell'ordine a 18 anni; ancor giovane ebbe il comando della galea Livornina, poi per successive e rapide promozioni, quasi tutte al valore, gli fu affidato il comando in capo della flotta col titolo d’ammiraglio. Molte furono le imprese guerresche nelle quali riportò veri trionfi: Laiazzo, Finica, Namur, Prevesa, (1605) Bona (1607) e Biserta. Con sole sei galee e undici galeoni affrontò energicamente la poderosa annata Turca composta di ben 45 grossi vascelli e, nonostante la forte sproporzione numerica, riportava una brillantissima vittoria. Anche sotto il governo di Cosimo II e di Ferdinando II l'Inghirami prosegue nelle sue imprese e la nostra marina acquista fama europea.

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In conclusione all'Inghirami devesi la conquista di .10. piazzeforti in vari punti del Mediterraneo soggetti al dominio ottomano; la cattura di 19 galee, 50 grossi vascelli, un maggior numero d’unità navali più piccole; la liberazione di 3000 cristiani e la cattura di 6000 infedeli. Morì il 3 gennaio 1624 in mezzo all'universale compianto e là sua salma fu sepolta nella cattedrale di Volterra. L'avvento al trono di Toscana di Giangastone de’Medici segna quasi la fine della nostra marina militare e il termine di questo ciclo glorioso d'imprese guerresche. Siamo ormai nel periodo della decadenza dell'Ordine. Succeduta in Toscana a quella medicea la dinastia lorerenese, la milizia stefaniana prese un altro indirizzo, affermerei che essa fu più austriaca che toscana, giacché si modellò sul tipo tedesco. Nell'anno 1809 l'ordine fu soppresso dal Governo francese dopo l'occupazione del regno d'Etruria effettuata dalle armi imperiali napoleoniche. Tentò nel 1799 Ferdinando III di Toscana di richiamarne in vigore gli statuti ma il 16 novembre 1859 l'Ordine fu definitivamente soppresso dal Governo provvisorio di Toscana. Ma se venne ad estinguersi questa bella istituzione che fu vanto di Pisa, della Toscana e dell'Italia, non si estinsero mai quello spirito e quella fiamma che lanciarono i nostri cavalieri sulle vie del mare di Roma a combattere con l'anima e con l'ardore di Duilio, di Scipione e di Cesare. Quello spirito e quella fiamma divennero prerogativa leggendaria del nostro popolo marinaro in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Concludendo questo argomento possiamo affermare che dal ricordo delle imprese guerresche compiute in tre secoli di vita della milizia stefaniana, emerge una verità tutta scintillante di bellezza: lo spirito che guidò i nostri cavalieri negli aspri cimenti del mare contribuì alla formazione di una coscienza nazionale ed alla creazione di un'anima italianamente marinara. A Cósimo I de’Medici successe Francesco I (1574—87) che non fu troppo largo di favori ai pisani, mentre Pisa godette l'appoggio dei Medici con Ferdinando I (1587-1 «09); sotto di lui molte opere pubbliche videro la luce: impianti d’acquedotti, apertura del canale navigabile dei Navicelli, che unendo Pisa a Livorno con una linea fluviale, favoriva le industrie e i commerci delle due città vicine, restauro del Duomo in parte rovinato dall'incendio (1595-1606); abbellimenti di edifici e protezione del commercio locale e dell'industria che si avviarono ad un nuovo rifiorire. Pisa stava riprendendo respiro, anche se era radicalmente mutata la sua configurazione geografica, giacché il Porto pisano si interrava, veniva abbandonato, mentre sorgeva poco lontano Livorno dove il commercio si andava accentrando. Pisa si era così assicurata una indisturbata mediocrità di vita vegetativa e stava divenendo, dal sec. XVI, tranquillo asilo di studi, nutrito solo dalle sue gloriose memorie. In tali condizioni la vita cittadina si protrasse, nel sec. XVII e XVIII, seguendo le comuni vicende del Granducato dei Medici, i quali spesso vi soggiornavano, partecipando alle pubbliche feste che saltuariamente venivano indette nella città. Poco liete vicende con Cosimo II. migliori con Ferdinando II, pessime con Cosimo III e di nuovo migliori con Giangastone, l'ultimo dei Medici.

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Passata la Toscana dai Medici ai Lorena, prima Francesco I (1737-65), poi Pietro Leopoldo I (1765-90), anche la nostra città risentì i benefici effetti di questi principi riformatori. Nel seguente sec. XIX avvennero fatti importanti in Italia e nella Toscana. Pisa però continuò a vivere la sua vita normale, dal 1790 al 1824 si successero Ferdinando III. Lodovico I, Carlo Lodovìco, Elisa Baciocchi e Ferdinando Lorenese finché, dal 1824 al 1859, governò paternamente Leopoldo II. Allo scoppiare della guerra dell'Indipendenza 1848 dall’Università pisana mosse il battaglione universitario toscano nel quale studenti e professori si fecero soldati e valorosamente combatterono a Curtatone e Montanara. Nel 1859 si compì la pacifica rivoluzione toscana e nel marzo del 1860 Pisa, con plebiscito, assentiva per l'unione al Regno di Vittorio Emanuele. Dopo l'unità d'Italia la città di Pisa, per la sua notevole importanza storica, geografica, religiosa e culturale divenne capoluogo di una vasta provincia, nella quale l'agricoltura, l'industria, il commercio e l'artigianato, furono e sono tuttora tenuti in gran conto, formando la sua principale ricchezza. Oggi la sola popolazione del capoluogo sta per raggiungere i centomila abitanti e quella della provincia ammonta a 362396. Lo sviluppo edilizio, che oggi ha preso un ampio respiro, iniziò allora con modeste abitazioni nei sobborghi e alla periferia della città. Tra la serena accoglienza delle sue antiche mura vennero a trascorrere parte della loro vita uomini famosi in ogni campo dello scibile umano, dalla politica alle lettere, dalle scienze alle arti, e tutti, anche se temporanei suoi cittadini, si appassionarono alle sue antiche memorie, apprezzarono ammirati le perle artistiche dei suoi rari monumenti, si estasiarono davanti agli stupendi tramonti dei suoi lungarni e poetarono quando nelle lunghe notti estive la Luna spandeva i suoi raggi sull'Arno, rendendolo d'argento: così di lei sognarono lirici della potenza di Shelley, Byron, Alfieri, Foscolo. Leopardi, Carducci, Pascoli, D'Annunzio e tanti altri. Non vi fu episodio nazionale al quale la nostra città non prendesse parte attiva: larga partecipazione di numerosi suoi figli alle imprese coloniali in Africa e nella guerra combattuta dal 1915 al 1918, terminata vittoriosamente. Efficace contributo fu dato dalla gente pisana in vari campi per lo sviluppo culturale, scientifico ed economico della Nazione. Durante l'ultima guerra, la città subì gravissime distruzioni; si pensi che essa ebbe ben 57 bombardamenti, 2954 morti, 11.000 feriti, 13.000 case distrutte, 54.045 vani resi inabitabili. Una vera sciagura che non trova paragone in nessuna precedente calamità. I servizi pubblici furono per la maggior parte distrutti o danneggiati in modo grave, I combattimenti nel suo territorio durarono 45 giorni. Ma da tutte queste distruzioni, per merito dello Stato, del Comune, dell'Amministrazione della Provincia e di vari Enti pubblici e privati, ma soprattuto per merito dei suoi figli, Pisa ritrovò la forza di risorgere e, nel breve spazio di un decennio, l'abitato e i servizi ripresero il loro crescente sviluppo.


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